Libertà

 

La libertà ha un valore economico quantificabile?

La domanda è capitale. Verrebbe da rispondere che il valore della libertà sia inestimabile, tuttavia, da poveri operatori del diritto, sovente ci tocca fare una stima, ancorché, per forza di cose, necessariamente arbitraria.

L’obbligo discende dal fatto che, in maniera sempre più diffusa, il sistema penale prevede la corresponsione di somme in coincidenza con la privazione della libertà personale. Se il caso più classico è quello dell’errore giudiziario, ovvero la condanna di un uomo poi provato innocente – e qui la stringente necessità di risarcire il malcapitato è intuitiva – molti sono oggi gli ambiti in cui, a vario titolo, l’ordinamento deve indennizzare gli interessati. Vediamo brevemente come e perché e, soprattutto, con quale coerenza logica.

In quali casi l’ordinamento deve indennizzare le persone?

Tutto nasce dall’introduzione nel nostro ordinamento della riparazione per l’ingiusta detenzione, istituto a suo tempo pensato per coloro che, raggiunti da una misura cautelare detentiva prima del processo, venivano poi assolti nel merito. Se, da un lato, il provvedimento era comunque legittimo poiché la misura cautelare viene spesso comminata quando le indagini sono ancora in corso e dunque la conoscenza dei fatti è parziale ed approssimativa, dall’altro però la privazione della libertà merita una qualche compensazione.

Discorso analogo viene fatto per l’altro caso, introdotto nel 2006, in cui viene indennizzato colui che, ristretto in carcere in fase cautelare, viene sì condannato, ma ad una pena inferiore rispetto al periodo di tempo già trascorso in detenzione. Sul periodo di tempo già scontato in più rispetto all’entità della condanna, dovrà essere corrisposto indennizzo.

La legge (artt. 314 e 315 c.p.p.) non prevede criteri per la quantificazione dell’indennizzo. Prevede solo il tetto massimo di 1.000.000.000 delle vecchie lire. La Cassazione, con la sentenza a Sezioni Unite Caridi del 2001, ha elaborato un criterio: si prende il tetto massimo di legge e lo si divide per il termine massimo di custodia cautelare previsto per il reato. Si ottiene così il “valore” di un giorno di detenzione. Si moltiplica la somma così ottenuta per il tempo trascorso in carcere e si quantificherà l’indennizzo dovuto.

Questo metodo, apparentemente così lineare, non è però esente da critiche, perché finisce per indennizzare con somme maggiori la detenzione patita per reati lievi rispetto a quella sofferta per reati gravi. Infatti, dal momento che i termini massimi di custodia cautelare sono tanto maggiori quanto più alta è la pena prevista per il reato. Da ciò consegue che, se il reato è grave, il divisore dell’operazione di cui parlavamo poc’anzi aumenta e, dunque, il risultato, ovvero l’indennizzo dovuto per il singolo giorno di detenzione, tenderà a diminuire.

Come regolare i casi simili

Singolari sono poi le questioni circa l’applicazione analogica, ovvero rivolta a casi simili ma non specificamente disciplinati, della riparazione per l’ingiusta detenzione. Proprio in questi giorni, la Cassazione ha emesso una sentenza in tema di responsabilità civile dell’avvocato in cui si è posta questo problema (cfr. Cass. Sez. III Civ. 12/2/2016 n. 12280). L’avvocato aveva dimenticato di appellare la sentenza di condanna a 7 anni patita da un suo cliente detenuto. La Corte ha ritenuto che, se il difensore avesse proposto appello, l’imputato si sarebbe visto ridurre la pena a 5 anni e 6 mesi, così come era avvenuto per i suoi complici, la cui posizione era già stata definita mediante un separato giudizio. L’avvocato doveva dunque risarcire il proprio assistito l’anno e sei mesi in più trascorso in carcere. 

Curioso è il criterio adottato per quantificare il risarcimento. La Corte ha infatti rifiutato il criterio della riparazione per l’ingiusta detenzione, sostenendo che, mentre quell’istituto indennizza chi ha trascorso periodi di detenzione pur essendo innocente, o comunque meritevole di una pena inferiore, qui la detenzione era giustamente data, ovvero motivata da una sentenza di condanna divenuta definitiva: quella del primo grado non appellata dal difensore. Al nostro condannato, dunque, toccherà un risarcimento di entità inferiore, che verrà quantificato secondo equità.

L’obiezione nasce spontanea: come si giustifica un simile trattamento deteriore se, in premessa al proprio ragionamento, la Corte riconosce il diritto al risarcimento proprio sulla base del fatto che il condannato ha trascorso in carcere un anno e sei mesi in più di quanto gli sarebbe toccato se il suo difensore avesse correttamente svolto il suo lavoro? L’interrogativo resta aperto.

Molti altri sono gli ambiti del diritto penale in cui questa schizofrenia si riproduce con effetti dirompenti. Pensate al caso in cui il condannato benefici della conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, beneficio che il giudice può concedere per le condanne fino a sei mesi. Il coefficiente di conversione è oggi pari ad un minimo di € 250 per ogni giorno di detenzione, aumentabile fino a dieci volte (cfr. art. 135 c.p., combinato con l’art. 53 l. 689/1981). Curiosa è la crescita esponenziale del coefficiente, che fino al 2011 era di € 35, poi divenne di € 75 ed infine, nel 2013, raggiunse il valore attuale di € 250.

In tre anni l’importo è quasi decuplicato! Il sospetto che la finalità fosse solo quella di fare cassa pare tutt’altro che infondato, ma la conseguenza è che non di rado la pena detentiva viene ritenuta preferibile dagli stessi condannati, i quali sovente sono portati a pensare che un mese di carcere sia meglio che pagare da € 7.500 ad € 75.000. Questioni di cassa, appunto, che spesso portano l’interessato a dover scegliere tra la libertà e il portafoglio.

Cosa accade quando è lo Stato ad essere debitore?

È quanto si verifica, ad esempio, per effetto del nuovo art. 35 ter della Legge sull’ordinamento penitenziario, con il quale lo Stato Italiano ha recepito la nota sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la quale l’Italia è stata condannata per le condizioni degradanti in cui, non di rado, i detenuti vengono mantenuti nelle patrie galere.

La legge prevede un meccanismo di indennizzi e sconti di pena per i condannati che soffrono condizioni detentive non accettabili in base ai quali, per compensarli della pena inumana subita, si concede loro uno sconto di un giorno di pena ogni dieci, ovvero, quando ciò non è possibile, un indennizzo pari a € 8,00 per ogni giorno di detenzione inumana patito.

In pratica, dunque, si tende ad affermare il principio per il quale un giorno di detenzione ingiusta vale come dieci trascorsi in condizioni degradate. Anche a voler accettare questa equivalenza, la cui natura convenzionale presta il fianco, per forza di cose, al rischio dell’arbitrio, se è lo Stato a dover pagare, un giorno di detenzione pare valere solo 80 euro, ovvero meno di un terzo di quanto , come minimo, viene a pagare, a parti invertite, il cittadino comune.

Quanto vale, dunque, la libertà di un individuo?

Di certo dipende da chi paga e dal potere contrattuale del debitore. Non c’è una risposta univoca, ma, data la schizofrenia dilagante del sistema, che sul punto legifera in modo a dir poco incoerente, preparatevi a diventare abili venditori di voi stessi. Qui siamo quasi al mercato delle vacche!

Elenco dei materiali citati nel testo: