Negare la Shoah è reato
Negare la Shoah è reato, lo afferma una legge dello Stato (la l. 16/6/2016 n. 115). La legge in questione si situa nel filone dei cosiddetti reati d’opinione, ovvero delitti che consistono nella semplice manifestazione del pensiero. Si pone immediatamente il problema della compatibilità di queste fattispecie, la cui genesi è antichissima e propria, più o meno, di tutti gli ordinamenti statuali moderni, con la libertà di manifestazione del pensiero, a partire dall’affermazione di questo delitto come caposaldo del costituzionalismo moderno.
Sul punto, due orientamenti si fronteggiano:
- il primo, tipico delle c.d. “democrazie protette”, come ad esempio la Germania, che vede nei principi della propria costituzione il limite alla libertà di espressione e di associazione, e quindi vietano la costituzione di partiti “anti-sistema”, come ad esempio il partito comunista;
- il secondo, tipico dei paesi di area mediterranea, che vieta la manifestazione del pensiero solo nel momento in cui si quali essa dia luogo al pericolo concreto che le idee possano essere recepite ed applicate.
I reati d’opinione in Italia
In Italia coesistono entrambe queste tendenze, recepite in vario modo dal legislatore a seconda delle convenienze del momento e delle emergenze sociali che via via si mirava ad affrontare. Accanto alle vecchie fattispecie di istigazione a delinquere e di apologia di reato, la cui introduzione risale al 1930, incentrate sul paradigma del pericolo concreto della commissione del reato oggetto della condotta apologetica o istigatoria, in epoca post-costituzionale si assiste all’elaborazione di disposizioni, come ad esempio quelle della c.d legge Scelba (l. 645/1952), che, in attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, dove si vieta la ricostituzione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, proibiscono la divulgazione dell’idea fascista attraverso il reato di manifestazioni fasciste. Siamo quindi alla repressione tout court delle idee anti-sistema, in opposizione e per il superamento delle quali era nata la costituzione del 1948.
Il contrasto tra queste due tendenze, in realtà, è tuttavia più apparente del reato. Dire che si reprime l’idea solo quando vi sia il concreto pericolo che faccia proseliti è infatti un sofisma. La libertà di manifestazione del pensiero è, per definizione, libertà di persuadere l’interlocutore della correttezza delle proprie argomentazioni, tanto da porsi non solo come libertà dei contenuti da divulgare, ma anche e soprattutto come libertà del mezzo attraverso il quale farlo. Ed ecco che, dunque, il conflitto tra reato d’opinione e libertà di espressione rimane stridente.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) pare aver intrapreso da alcuni anni una terza via: quella dell’abuso del diritto, previsto come limite dall’art. 17 della Convenzione. Si dice, quindi che i diritti di libertà riconosciuti dalla CEDU non possono essere utilizzati, pena un indistricabile corto circuito logico, per conculcare altri diritti di libertà riconosciuti dalla stessa Convenzione Europea per i Diritti Dell’Uomo.
Tradotto in termini pratici: idee liberticide o tese a negare i diritti civili ad altri individui non sono ammissibili poiché, a livello sovranazionale, la tutela dei diritti inviolabili dell’Uomo è irrinunciabile ed estesa a tutti.
Da qui discende la legittimità della repressione incondizionata di idee ispirate, ad esempio, all’odio razziale. Ed ecco che allora la nostra legge Mancino trova piena legittimità.
La legge Mancino e l’abuso della libertà di manifestazione del pensiero
Tracciato lo scenario in cui la nuova legge si va a situare, vediamone brevemente i contenuti e, se possibile, le incongruenze.
Questa legge parifica la condotta di semplice propaganda a quella di istigazione alla violenza. E’ chiaramente di una sperequazione soprattutto perché trattasi certamente di condotte differenti per gravità e potenzialità dannosa.
Non solo: il delitto di apologia di genocidio era già presente nel nostro ordinamento fin dal 1967 ed era punito con la reclusione fino a dodici anni.
Ora, dovendo raccordare le due norme, si arriva all’assurdo per cui giustificare il genocidio implica la reclusione fino a dodici anni, ma negarne l’esistenza storica è punito soltanto con un massimo di sei.
Qualcuno può intravedere una logica in tutto questo, salvo forse la mossa meramente propagandistica della novella? La nuova legge non inasprisce, ma attenua, fino a dimezzarla, la pena prevista per la negazione del genocidio. Non è dunque una norma repressiva, ma, curioso paradosso, si accredita come norma di favore.
La Shoah e gli altri crimini contro l’umanità
La nuova norma tratta in modo specifico la Shoah e, simmetricamente, in maniera assai generica la negazione degli altri genocidi e crimini contro l’umanità. Ciò significa che, mentre negare la Shoah è automaticamente reato, negare altri fatti di genocidio o altri crimini contro l’umanità potrà essere ammissibile nell’ambito della discussione storiografica, giacché la legge non prende posizione sul punto.
Si assisterà, dunque, verosimilmente, ad una sorta di discriminazione tra genocidi, come già avvenuta nella giurisprudenza della Corte EDU:
- Il caso Kuhne: la negazione del genocidio ebraico va repressa in quanto tale poiché condotta contraria all’aspirazione alla pace ed alla giustizia tra i popoli.
- Il genocidio degli Armeni: qui il limite non è più quello della libertà di manifestazione del pensiero, ma quello della libertà di ricerca scientifica, sicché il giudice viene chiamato ad analizzare – non si sa con quali competenze specifiche – se alla condotta negazionista, in questo o quel frangente, possa essere conferita dignità scientifica.
Una discriminazione non solo evidente, ma anche dagli sviluppi virtualmente incontrollabili poiché affidati in toto alla sensibilità del singolo giudice.
Ne valeva la pena per una norma penale di favore? Qualche dubbio ci pare legittimo.