Ma, nella partita tra imprenditore e Agenzia delle Entrate, il fisco gioca sempre in casa

Cosa accade ad un imprenditore che non riesce ad onorare le scadenze fiscali per carenza di liquidità? Se n’è occupata una recentissima sentenza del Tribunale di Milano (sez. III pen. n. 13701/15, dep. 18/2/2016). Il reato ipotizzato era l’omesso versamento delle ritenute certificate (art. 10 bis D.Lgs. 74/2000) che diventa di competenza del giudice penale se l’importo evaso supera € 50.000.

La giurisprudenza è tradizionalmente severa, per non dire draconiana, con gli imprenditori in difficoltà. Se è lo stesso imprenditore a certificare le somme dovute al fisco, come avviene nel caso delle ritenute, va da sé che egli sia gravato da un obbligo di accantonare il denaro per provvedere ai pagamenti.

Cosa succede se  l’imprenditore non riesce ad accantonare le somme per pagare le ritenute certificate al fisco?

In sintesi, il pensiero dominante ha sempre affermato che in caso di omissione del pagamento di queste tasse scatta fatalmente la tagliola della sanzione penale. Sebbene per configurare il reato è richiesto da parte del soggetto che vi sia dolo, non bastando quindi la semplice negligenza della gestione dei denari dell’azienda, la Cassazione,in passato, ha costantemente liquidato la questione argomentando che “la consapevole certificazione degli importi dovuti a cui non seguiva l’accantonamento delle somme generava nella mente dell’imprenditore, per forza di cose, la rappresentazione dell’eventualità di non poter osservare le scadenze, eventualità che egli consapevolmente accettava: in altre parole: se l’imprenditore non riusciva a farcela, il suo comportamento, di natura colposa, veniva, fin quasi artificiosamente, trasformato in un fatto doloso.

Quali scenari per l’imprenditore in difficoltà?

Nessuno spazio veniva lasciato, in passato, alla crisi di liquidità come scusante, tranne, forse, nel caso della crisi c.d. assoluta, che si riduce all’ipotesi dell’amministratore che, subentrando al precedente in un momento troppo vicino alla scadenza fiscale, oltre a non avere soldi non ha nemmeno il tempo sufficiente per istruire le pratiche per ricorrere al credito bancario.

Il Tribunale di Milano si occupa invece di un caso di crisi di liquidità c.d. relativa: alcune risorse in azienda c’erano, ma erano state utilizzate per fronteggiare altri obblighi ed altre emergenze anziché per le tasse.

Nello specifico, si trattava dell’insieme di:

  • debiti fiscali pregressi;
  • dell’ammodernamento degli impianti richiesto da nuove normative;
  • del rientro degli affidamenti richiesto dalle banche.

L’imprenditore aveva così esaurito le disponibilità, la coperta si era fatta corta e le ritenute certificate erano rimaste insolute.

Insolvenza come conseguenza non evitabile

Una sentenza innovativa

Il Tribunale di Milano rileva come l‘amministratore abbia agito con coscienza, facendo fronte ad obblighi da cui la società era già gravata. L’insolvenza non era quindi oggetto di una scelta discrezionale, ma il frutto dell’accumularsi di una serie di posizioni debitorie.

Sebbene non esista una causa di giustificazione specificamente prevista dalla legge, il giudice argomenta in base al generalissimo principio di colpevolezza, che si concretizza nel rimprovero derivante dalla differenza tra il comportamento tenuto e quello che si sarebbe dovuto tenere. La condotta doverosa, tuttavia, deve essere in concreto possibile, requisito che, nel caso di specie, mancava.

È quella che si definisce, in gergo tecnico, l’inesigibilità in concreto della condotta, ricorrendo la quale l’imprenditore va assolto.

Chi paga, allora?

Cosa succede dopo l’assoluzione? Il diritto tributario italiano ha vizi endemici che questa sentenza, purtroppo, non può scalfire. Accanto alle sanzioni penali, permangono infatti quelle tributarie, che si concentrano, nonostante le censure mosse anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sul medesimo comportamento oggetto della repressione penale, con frequente violazione, dunque, del principio del ne bis in idem, che vieta di venir puniti due volte per lo stesso fatto.

Sul punto, però, manca una presa di posizione da parte della giurisprudenza, anche costituzionale, il che significa che il nostro imprenditore, benché assolto in sede penale, potrà essere chiamato a rispondere dell’omesso versamento delle ritenute in sede tributaria, con buona pace delle Commissioni Tributarie, che non saranno vincolate dal pronunciamento del giudice penale, stante il c.d. principio dell’indipendenza dei giudicati: un sistema controverso in cui si può essere allo stesso tempo colpevoli ed innocenti.

Temete i giudici togati? Non dimenticate le tasse ed il fisco! Se perde nelle corti penali, mantiene comunque il diritto di chiedere il pagamento delle imposte e delle relative sanzioni.

L’Agenzia delle Entrate forse perde in trasferta, ma la rivincita può sempre giocarla in casa.